La Voce di Federica

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lippy anonima che si racconta per noi

❤️ Perché il tempo dedicato all’ascolto è tempo di cura ❤️

“Ho scoperto di avere il lipedema ormai quasi due anni fa, grazie a quel medico in camice bianco che al termine di una visita me l’ha nominato per la prima volta. Sono uscita dal suo studio con la stessa sensazione che devono provare i bambini quando imparano a parlare e sentono per la prima volta la parola ‘mare’. Ma ‘mare’ è come ‘cane’ che ho sentito l’altro giorno dalla Nonna? O come ‘pane’ che ha sillabato Papà? Il mio passato da classicista mi consentiva di capire entrambi i due termini che compongono la parola, ma ho avuto bisogno di giorni di letture per comprendere fino in fondo di cosa si trattasse.

La diagnosi l’ho sentita come un cazzotto in pieno volto. Mi ha bruciato la pelle, e il cuore.

Da quel giorno è passato un po’ di tempo, tempo che ho impiegato a curarmi fuori ma soprattutto dentro, tempo che ho impiegato a metabolizzare il fatto di avere dentro di me una cosa estranea, che non mi appartiene, che non dovrebbe esserci. Quando pensiamo al grasso lo facciamo sempre con un’espressione un po’ contrita, in particolare noi donne. E come tutte, io ho sempre guardato al mio grasso-in-più con particolare ribrezzo ma ora, ora che so che il mio grasso-in-più non è mio mio, ora lo guardo sì con ribrezzo, ma anche con un po’ di paura, ma anche con un po’ di consapevolezza, ma anche con un po’ di rivincita.

In realtà non posso raccontare di antipatiche storie di bullismo, ché fondamentalmente non ne ho mai subito anche perché, passato il periodo dell’adolescenza in cui pensavo che una gnappa di un metro e due baffi potesse mangiare quanto una stangona pallavolista, sono sempre stata fisicamente “normale” (e passatemi il termine anche se non piace proprio nemmeno a me). Quando parlo di rivincita quindi mi riferisco alla rivincita contro me stessa, il giudice più cattivo e severo di tutti che ha bastonato per anni e anni quell’immagine allo specchio perché ‘mangi bene ma forse non abbastanza’, ‘ti alleni bene ma forse non abbastanza’, ‘sei carina ma forse non abbastanza’. Ricordo che una mia amica di scuola mi aveva scherzosamente paragonato alla Dea Mater, quella tanto venerata dagli antichi come sinonimo di prosperità. Le mie forme a clessidra gliela ricordavano, diceva. Non ci sarebbe nulla di esasperatamente offensivo in un commento del genere, se non fosse che il mio giudice, come ho detto, era davvero cattivo, era davvero severo. Nella mia casa d’infanzia c’era una statuetta della Dea madre (strana coincidenza direte) piccola e in terracotta, apparentemente dimenticata tra una serie di libri ed un vaso. Da quella fredda mattina nell’aula del mio liceo, per anni non sono riuscita a guardare quella statuetta come si guarda un semplice pezzo prendipolvere da soggiorno; nel sollevarla mi sembrava che ogni volta pesasse più della precedente e sentivo da dietro il mio giudice sghignazzare a pieni polmoni.

Lo schiaffo del medico, che mi sembra ora così lontano, ha un po’ ridimensionato il ghigno malefico del mio giudice. Lo sento ancora, a volte, ma non brucia più ed è una voce flebile, quasi ovattata. Nel momento in cui ti dicono che c’è qualcosa che non dipende completamente da te, dai tuoi sforzi, dalla tua volontà, tiri un sospiro di sollievo. Soprattutto perché senti che avresti potuto coccolare il tuo corpo negli anni, anziché umiliarlo a più riprese. Soprattutto perché se è vero che conta il percorso e non la destinazione, sapere di aver fatto un buon percorso è d’aiuto, anche se la destinazione sembra lontana.

Spogliarsi davanti a un estraneo non è mai semplice. Non è semplice se l’estraneo sei tu, davanti a uno specchio. Non è semplice se l’estraneo siete voi, che leggete tra le righe del mio corpo. Ho deciso che oggi non mi importa di non apparire bella, non mi importa di sembrare imperfetta. Ho deciso di buttare via i vestiti, oggi, e mostrarvi tutto questo perché può servire a qualcun altro, forse. Perché se qualcun altro l’avesse fatto con me, qualche anno fa, gliene sarei stata grata.

Se c’è qualcuna che convive con tutto questo dolore, con tutto questo malessere e pensa che tutto questo sia normale vorrei dirle che no, di normale non c’è nulla. Vorrei dirle di informarsi, leggere e capire, perché, nel caso migliore, avrà solo sprecato parte del suo tempo per conoscere qualcosa di nuovo. Vorrei dirle, e forse dirmi, che poco importa se le sue gambe non sono belle come quelle della stangona pallavolista, l’importante è che le consentano di viaggiare, nuotare, correre, rotolarsi sull’erba, amare. Alle mie gambe dico grazie, per tutto questo, ogni giorno.

Ora mi rivesto piano di tutte le mie emozioni che a stare così, spoglia, non lo so mica se riesco a nascondere il rossore sulle guance. Ma prima dico grazie anche a voi che siete arrivati fin qui, sussurrandovi, cuore in mano: domani cercate di essere un po’ meno severi di oggi con voi stessi. “

La voce della Lippy

Lippy anonima

“Giudichiamo incessantemente. Giudichiamo anche tutti coloro che dichiarano un dolore che noi non riusciamo a vedere.”

La voce della Lippy

Bestiario

Un piccolo estratto dal nutrito bestiario delle reazioni del mondo sanitario, familiare, affettivo e sociale di fronte al lipedema.

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